Serie A

Canestro e Fallo: Alzala Peppe!

22.02.2018 11:08

ALZALA

GIOVEDI’ POMERIGGIO

La notizia del probabile taglio di Patterson con Iannuzzi già fuori rosa, collegata a tutto quello che è successo da Varese in poi, fa sembrare l’Auxilium come una di quelle serie tv in cui sceneggiatori a corto di idee iniziano a piazzare un colpo di scena assurdo a puntata, trasformandole puttanate galattiche. Però.
Però da quando Galbiati è diventato head coach, affiancato da Comazzi e Siragusa, ci credo. Ci credo grazie al Vangelo secondo Marchese (“E se iniziasse tutto domani?” apparso proprio su queste colonne alla vigilia del debutto della nuova guida tecnica). Ci credo perché contro lo Zenit, per parte della gara, siamo tornati quelli che facevano sognare e, quando c’è stato il ritorno dei russi, il pubblico è stato commovente. Ci credo per la vittoria brutta, sporca e cattiva contro Pesaro.

GIOVEDI’ SERA

Torno spiegazzato dal lavoro, infilo la chiave nella toppa, accendo la tv.
Cremona ha eliminato Avellino. Se passassimo.
La partita inizia, la cena nel piatto. Non si segna né di qua, né di là. Poi solo di là. Nonostante l’occhio disilluso con cui ho iniziato a guardare Torino-Venezia, alla tripla di Garrett sono già in piedi. Nel primo quarto Venezia ne mette quattro, facendo sembrare ottima pallacanestro il nostro avvio di gara in casa loro due stagioni or sono.
Pare di sognare: loro non riescono a rientrare, noi giochiamo da squadra e allunghiamo. Dopo la benedizione di Pozzecco che, ruminando un chewing gum in diretta tv, fa capire che l’Aux potrebbe essere la squadra da battere nella competizione, arriviamo addirittura a più 20. Forse è davvero un sogno: un ultimo quarto tranquillo, di gestione, che potrei guardare anche da seduto.
Come no. Venezia decide sul più bello di ricominciare a giocare da campione d’Italia e inizia a fare paura, pur tirando in modo allucinante dalla lunetta. Ma quando Watt sbaglia in maniera atroce la comoda schiacciata del meno tre, capisco che “almeno per stanotte non c’è nessun dolore”. Riallunghiamo a colpi di liberi.
Gli sceneggiatori della serie tv, stavolta, hanno scritto una puntata incredibile: semifinale. Contro Cremona. Affrontata e battuta in campionato, dopo aver affrontato e battuto proprio la squadra di De Raffaele. Pure la cabala dalla nostra parte. Ma vuoi vedere che.

VENERDI’ SERA

Chat di Whatsapp.
“Avete visto Cantù?” No, lavoravo. Ma in pochi secondi recupero il tempo perso: Cantù travolge Milano e va in semifinale. Le prime tre del campionato spazzate via. Ma vuoi proprio vedere che.
Tutto così pazzesco che ce la potremmo anche fare. Come l’anno della promozione in A. Come l’anno della prima salvezza. Una serie di sfighe e di situazioni autoinflitte che, al momento buono, ci hanno fatto trovare pronti. Ancora in piedi.
Mentre guardo Brescia avere la meglio sulla sempre ‘simpa’ Bologna (dai, sti nomi di battesimo sulle canotte non si possono a guardare. Dove siamo? Alle medie?), in realtà sto cercando di non pensare a quanto diavolo stia cominciando a crederci per la paura di starci troppo male dopo.
Sì, è contorto. Ma tanto lo so che ci siamo capiti.

SABATO POMERIGGIO

Voglio un bene dell’anima a Meo Sacchetti. Ma tanto, tipo vorrei che fosse un mio parente e che fosse sempre contento. Il tifo che, ai tempi, feci per Sassari durante la finale con Reggio Emilia fu totale, per lui e per i giocatori fantastici che aveva, con cui creò un mondo fantastico di triple, zompi e schiacciate. Quindi, quando me lo ritrovo contro, sono quasi imbarazzato a esultare. Ho paura che, a Palazzo, si giri di scatto, mentre faccio qualche mossetta da ebete dopo una nostra azione importante e mi sgami, guardandomi severamente. (“Ah, e tu saresti quello che tifava per me in Sassari-Reggio Emilia, eh? E adesso perché mi fai questo?”). Però stasera sono davanti alla tv e non può vedermi. Forse.

Iniziamo malissimo. Sento odore di bruciato fin dalle prime battute: noi ingolfati, Cremona bene.
Scrivo su Whatsapp “La perdiamo”. E siamo solo 4-2 per loro. Per un quarto il mood è questo, ma, per fortuna, passa subito. Passa subito perché, come con Venezia, più che con Venezia, iniziamo ad aiutarci, a difendere, a lottare. E allora, anche quando andiamo sotto, il mio cuore è leggero. Se contro Venezia ero un pochino sorpreso, mi godo la squadra. Li guardo e penso a quanto gli voglio bene.
A Galbiati che ha delle occhiaie quasi peggiori delle mie e in panchina tarantoleggia in modo esaltante.
A Poeta, che ha talmente fasce e cerotti da sembrare Marv in Sin City.
A Garrett, al suo talento clamoroso e alla sua faccia, sì, perché come fai a non volere bene a uno con una faccia così?
A Mazzola che è stato zitto, aspettando il suo momento senza polemiche, e che si sta prendendo la ribalta nel periodo giusto.
A Sasha, a cui perdoni la spadellata, perché sai che quando conta ci sarà, cazzo se ci sarà.
E, soprattutto, a Deron. Un supereroe. Un demone. Una cosa che non esiste in natura. Arriva Blue e lasceranno fuori lui, sì, come no.

In mezzo a questa spremuta di cuore, siamo rientrati. Nonostante i Diener evocati dall’oltretomba, nonostante Johnson Odom faccia sempre un po’ paura, siamo lì. Siamo lì grazie anche a Vander Blue che, in questo nostro mondo alla rovescia, è arrivato da cinque minuti e sembra gialloblù da sempre, anche per come festeggia. Sull’80-80 ha lui la palla della vittoria: quando parte mi vedo già una scena tipo Dyson in gara sei contro Reggio Emilia, vince il duello, va in volo, alzo le braccia e…..

Niente. Stoppato. Con fallo, probabilmente. Ma non lo fischiano: supplementare. L’overtime è in mano da subito: la tripla del più cinque di Vujacic, conferma solo quanto detto poco sopra su The Machine. Quando serve, quando conta, quando pesa, lui c’è e ci mette al riparo da un ultimo minuto in cui, con un paio di gestioni da neurodeliri, rischiamo di far rientrare i lombardi. Però siamo in finale. Meo, scusa, tvb, ma godo.

Se dovessero fare un dvd su quest’impresa, nei contenuti speciali entra di diritto la faccina che fa Vujacic quando Maurizio Fanelli gli chiede se gli faccia più paura trovare Brescia o Cantù in finale. Due secondi di intensità pazzesca, con un’espressione fra un mezzo sorriso e un bonario “che cacchio dici”, prima di rispondere un “nessuno” di prammatica. Trovatemi il fermo immagine che così me lo tatuo.

SABATO SERA

Stanco come se l’avessi giocata, troppo per uscire.
Guardo Brescia-Cantù e faccio bene: partita epica. Non so decidermi su chi potrei volere in finale. La tentazione di vendetta sportiva nei confronti della Red October c’è, però con Brescia, in questi anni, è diventata una specie di classica. Ci siamo affrontati un sacco di volte e, nella semifinale playoff del 2015, l’abbiamo portata a casa dopo una serie stupenda, che se penso a quella tripla di Rosselli nei supplementari di gara 4, Mado’.
Poi hanno dei bei tifosi: corretti, rumorosi, partecipi. Mi stanno simpatici, anche se, al momento giusto, qualche bel gesto dell’ombrello mi è scappato. Mi stanno un po’ meno i simpatici i Vitali quando fanno le faccette per aizzarli, ma quello è un problema mio.
Nonostante un Thomas da statua equestre, Brescia vince all’overtime diventando l’unica cosa che si frappone fra noi e la coppa.

DOMENICA POMERIGGIO

E’ dura, durissima, sin da subito.
Vorrei che Colo non tirasse mai più da tre in vita sua.
Brescia fa la partita, ma noi rimaniamo attaccati con i denti e col talento (il canestro da tre allo scadere dei 24 secondi di Vander Blue dopo una finta da far esplodere il cervello, in primis).
Brescia prova a scappare, per esempio con una tripla di tabella più fallo di Sacchetti con tanto di faccia cattiva e gesti plateali. Mentre lo guardo, penso che se al papà voglio tanto bene, al figlio ne voglio un po’ meno.
Brescia sogna l’allungo, ma ci ritrova sempre lì dietro. Convinti. A dire che no, non basta, devono fare di più. Perché noi siamo quelli che, allo scadere del secondo quarto, abbiamo Washington che recupera un rimbalzo in difesa, fa un lancio da football americano per Garrett e il nostro play segna sulla sirena prima dell’intervallo lungo.
Il terzo quarto è meraviglioso: vorrei che Colo non facesse altro che tirare da tre in vita sua.
Più andiamo avanti coi minuti e più tutto si fa confuso: la tensione lascia spazio solo a dei lampi di lucidità.
I problemi di falli: Washington ne ha quattro. QUATTRO. E riesce a gestirsi come se non ne avesse nemmeno uno. L’hanno detto tutti, lo dico anch’io: l’MVP era lui. Ma non della Finale Eight. Della vita.
Washington che mette una tripla totalmente fuori ritmo per far capire che siamo sempre lì.
La tripla di Peppe da Battipaglia che ci dà il primo vantaggio. E Battipaglia indica da dove ha tirato.
Galbiati e Garrett vis à vis dopo un fallo su tiro da tre di Luca Vitali e chissà cos’ha detto il coach per far apparire, nel giro di un secondo, il sorrisone sul volto dapprima incazzato di Diante.
Hunt bersaglio perfetto per l’Hack-a-Shaq.
Poi arriva l’azione che gira l’inerzia: noi che tiriamo da ogni parte, sbagliamo, ma Mazzola è sempre il primo a saltare e a prendere il rimbalzo. Un possesso infinito che Valerione decide di concludere nel modo migliore, con quelle paroline magiche che danno il titolo a questa rubrica: canestro e fallo.
Davanti a tanta volontà, Brescia accusa il colpo. Sì, ci sono ancora le triple di Landry e Luca Vitali, inframezzate da quella di Garrett, ma le facce sono diverse. Niente smorfie al pubblico, meno convinzione. Il sottile senso di paura che aleggia in campo. Poi, si cambia dimensione.

AL DI FUORI DELLO SPAZIO E DEL TEMPO

Quando Garrett sbaglia la tripla del nuovo più tre, Brescia ha un possesso di importanza capitale.
Non è domenica sera, non è niente, non so dove mi trovo e che giorno sia. Il tempo che conta è solo quel cronometro a cui mi affido per capire quanto ci rimarrebbe per l’ultimo possesso.
Loro sbagliano e prendono il rimbalzo. Io sono ancora lì a sottrarre secondi, poi mi ritrovo lontano dalla televisione, sento che Luca Vitali ha sbagliato la tripla, rimetto i miei occhi sullo schermo giusto per vedere che la palla è in mano a Washington, non si sa come o come lo sa solo lui, perché tutto sa e tutto può. E Deron scappa. Non faccio in tempo a pensare: “Ti prego Deron , tienila in mano fino alla sirena, costi quel che costi, va bene anche il supplementare” che sbuca Sasha. Si sbraccia, chiede palla come un giocatore di calcio totalmente solo a un metro dalla porta. La palla arriva e The Machine la appoggia dentro, chiudendo un’azione che, nel dopo partita, rivedrò da ottomila angolazioni, con un’attenzione al limite dell’erotismo.
Non ho più guardato il cronometro, mi aspettavo che, dopo il tocco di Vujacic, il tabellone diventasse rosso e suonasse la sirena. Invece mancano ancora due secondi e rotti.
E allora decido che non ce la faccio. Non potrei accettare un canestro beffa a quel punto, mi farebbe troppo male. Le squadre rientrano dal timeout. Rimessa. Spengo. Conto fino a dieci. O forse trenta. O forse centottanta. Riaccendo: primo piano di Michele Vitali in lacrime. Una macchia gialla che festeggia. Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo vinto la Coppa Italia. Posso piangere anche io, ma di gioia.
Alzala, Peppe. Alzala.
Il tetto del palazzo è gialloblù al Mandela Forum.

DOMENICA SERA E GIORNI SUCCESSIVI

Si fa fatica a dire che Torino sia una favola.
Forse perché si associano al termine solo gli exploit dei piccoli centri: ci tengono proprio, tipo quelli contro cui giocheremo alla ripresa del campionato che, dopo averci battuto a dir poco fortunosamente lo scorso anno, buffoneggiavano su Facebook “eh, quanto fa male per una grande città perdere contro un comune di 13000 abitanti”. Poi vai a vedere i loro profili e sono della Juve o del Milan. Deduco che per il calcio il discorso non valga, quindi. Ma passiamo oltre.
Dicevamo, si fa fatica a dirlo, ma lo è. Lo scrisse anche, in un memorabile post, Cuore Gialloblù prima della drammatica gara 4 contro Agrigento: se non è una favola Torino che, risorta dalla proprie ceneri, non è mai stata ripescata ed è risalita con le sue forze, non si sa cosa lo sia.
Non va bene “favola”? Allora diciamo che Torino è una fiaba. Forse è anche più corretto, perché nelle fiabe ci sono i cattivi, le difficoltà, gli orchi, la matrigna. Però poi c’è anche il lieto fine. Il lieto fine di una coppa alzata da puri outsider, sudata, voluta, meritata. Il lieto fine che continua a portare nella testa immagini cariche di endorfine, che ti fa venire voglia di urlare “alzala” a caso anche a distanza di giorni, che riempie la schiena di brividi. E il bello è che il lieto fine può diventare un altro splendido inizio. Ci sono dei playoff che aspettano di essere conquistati e sono una principessa addormentata nel bosco. Andiamo a baciarla e prendiamoci anche quelli.
 

 

 

 

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